Intervista a Setti |Alla scoperta dell’America con il suo nuovo album “Arto”

Si può scoprire l’America con un disco? Nicola Setti ci ha provato con il suo nuovo album “Arto”, pubblicato il 5 ottobre per Vaccino Dischi/La Barberia Records. Di seguito la nostra intervista.

“Arto”, il nuovo album di Setti, rappresenta un piccolo viaggio interiore tra le high school, i barbecue, le piccole province statunitensi, i concerti mancati e la mitologia circense, le “tentazioni sloganistiche kraut” e gli orizzonti inesistenti. Nella nostra intervista ci siamo fatti raccontare qualche dettaglio su questa raccolta di canzoni da ascoltare ad occhi chiusi, racchiuse in una citazione del nome del musicista Arto Lindsay. 

 

 

Ciao Nicola, come hai iniziato a suonare e da quale strumento sei partito?
Dunque penso che il primo approccio sia stato con l’agghiacciante flauto di plastica a scuola alle medie. Poi, non so ancora perché. Ho studiato per 2 anni organo elettrico. Poi mi hanno regalato una chitarra classica e mi sono iscritto a un corso della circoscrizione, avrò avuto 12 anni circa. Dopo un anno ho capito che mi divertiva molto di più il lato della scrittura rispetto a quello dell’approfondimento della tecnica a livello strumentale.

Come si intitolava la prima canzone che hai scritto in assoluto?
Oddio, all’inizio scrivevo in inglese. A 12 anni circa, quindi parliamo di 21 anni fa. Avevo realizzato un concept orribile che avevo somministrato ad alcuni amici. Registrato col microfono integrato del pc. Forse “John” una cosa del genere, ma temo fosse molto peggio, non ho mai avuto il coraggio di riguardare.

Il 5 ottobre è uscito il tuo nuovo progetto, Arto, che ha avuto una gestazione piuttosto lunga. Come mai ci sono voluti quattro anni?
Il disco precedente, “Ahilui”, è del 2013, ma ho iniziato a fare ep a nome Setti nel 2008. Diciamo che era un progetto molto libero e io amo molto anche la parte di home recording, quindi sono usciti e usciranno svariati ep fatti in casa tra un disco e l’altro. Ci sono state molte ragioni, alcune tecniche e organizzative, altre personali. In ogni caso sono molto contento del risultato, delle canzoni che ci sono finite dentro e di come lo abbiamo realizzato. Quindi alla fine vuol dire che doveva andare così. In ogni caso diciamo che in Arto ci sono i pezzi che dopo anni ancora mi emoziona suonare e sentire, c’è stata una selezione naturale.

Hai suddiviso il disco in due atti: il primo è un viaggio immaginario in America e il secondo, invece, è un viaggio attorno al mondo. Come è nata quest’idea?
Il mio processo è stato questo. Ho scritto molte canzoni e poi ho selezionato quelle che dopo il passare del tempo ancora mi sembravano significative e mi emozionavano. Poi ho fatto sentire i provini a Luca Mazzieri e si è pensato alla veste musicale del disco. Una volta finito le registrazioni e il mixaggio, ho provato varie scalette. Questa a livello tematico e di suono era quella che mi piaceva di più. Dopo alcuni mesi in cui non lo avevo ascoltato l’ho sentito per preparare la promozione e ho notato che il lato A del vinile era molto americano e il lato B aveva elementi più europei, ma anche sudamericani. Ho trovato la cosa molto interessante ma non posso dire che sia stata una mia idea, è stata una mia scoperta. Ironicamente è stata la scoperta dell’America nel disco.

Viaggi solo nella mente o sei stato davvero in America? (Se sì, dove di preciso. Se no, dove ti piacerebbe andare e perché?
Sono stato in Florida e a Boston a 10 anni circa con mio padre. Io nel live quando introduco i pezzi con i nomi degli Stati Americani di solito scherzo su questa cosa, del fatto che “sono stato solo a Boston ma non ho mai scritto un pezzo che si chiama Boston” allora Sam che è la metà californiana dei Baseball Gregg ha scritto il pezzo Boston e ci abbiamo fatto un duetto in un loro EP. Mi piacerebbe molto andare a New York perché è la città di origine o che ha influenzato di più moltissimi tra i miei artisti preferiti. L’America presente del disco è del tutto mentale invece, è un immaginario che uso per parlare d’altro, è strumentale diciamo.

Quali telefilm ti hanno ispirato nella scrittura di “Stanza”?
Stanza è appunto il pezzo suonato con i Baseball Gregg nel disco. Diciamo che mi possono avere influenzato tutti i telefilm americani ambientati nelle high school che guardavo da ragazzino. Il testo in fondo parla di un disagio adolescenziale da scuola superiore, una specie di triangolo. Da Bayside School a Beverly Hills, da Dawson’s Creek a Sabrina vita da strega e così via. Ma ho cercato di vedere un episodio simile, che è successo anche a me ovviamente, come se lo guardasse Morrissey, con quell’ironia e autoironia melodrammatica molto inglese. Poi il risultato non c’entra nulla con nessuno dei due immaginari forse. È così che andò.

 

 

Inizialmente “Presente” lo immaginavi come il pezzo punk del disco, nel senso di un “presente annullato dagli strumenti digitali”. Sei un anti-social? Ti mancano gli anni in cui non eravamo costantemente connessi?
Dico che è il pezzo punk per via dello slogan “no future”. Io nel pezzo ho immaginato che non ci fosse un futuro, ma nemmeno un passato e di avere presente solo quello che vedo. Quando scrivo non mi piace esprimere giudizi. Solo raccontare storie o porre domande. In parte poi la canzone è anche autobiografica, li uso molto i social, anche perché spesso lavoro da casa al pc quindi mi distraggono molto ma mi divertono altrettanto. Il concetto è solo che “Non ho presente quel che succede durante il giorno e non si vede. Ci giro intorno”, vuol dire che quello che non vedo posso solo immaginarlo oppure semplicemente non lo considero, quindi il tutto è ancora più filtrato dalla mia percezione. Ma questo valeva anche quando non c’era internet o i social. Non è assolutamente una critica, è un pensiero che mi sembrava interessante, drammatico e divertente. E’ una storia.

Qual è la canzone che ti ha richiesto più tempo?
Alla fine a livello di scrittura mi sono reso conto che le canzoni finite nel disco sono quelle che ho scritto in modo più veloce. Magari ci pensavo da un mese al concetto ma la stesura è stata molto rapida. Invece dal punto di vista musicale arrivare all’essenzialità di “Orizzonte” per me è stato un passo importante, poi per le registrazioni abbiamo lavorato a distanza con Glauco Salvo dei Comaneci che mi ha mandato delle parti bellissime. Il processo più lungo è stato togliere direi.

Solitamente cosa scrivi prima, il testo o la musica?
Solitamente parto da un’idea o da una frase che mi piace, poi scrivo il ritornello, a livello di testo e melodia e ci lavoro intorno, ricamo attorno a un punto. Ma non è una regola. Mi piacciono molto le canzoni come formato, la melodia e il pop a livello d’ascolto. Non parlo di canzoni radiofoniche, ma di canzoni che mi viene voglia di cantare in macchina, o sotto la doccia, mentre cucino. Sono pezzi pop nel senso che sono popolari nella mia testa, che la popolano se mi concedi il gioco di parole. Che mi sembra parlino di me. Daniel Johnston per me è uno dei migliori autori pop, per esempio.

Come hai conosciuto Luca Lovisetto e Luca Mazzieri e in che modo hanno dato forma alle tue canzoni?
Ho conosciuto prima Luca Mazzieri che ha prodotto anche il mio primo disco “Ahilui” e che con Giovanni ha La Barberia Records. “Ahilui” è nato pensando di registrarlo con Luca Mazzieri, è stato anche scritto per quello. Io ero fan dei Wolther Goes Stranger e degli A Classic Education, per me Luca è uno dei migliori chitarristi e autori in assoluto. Luca ha sentito le mie cose e ha detto che ci vedeva dentro anche altro rispetto alla parte ironica di superficie. Mi ha accompagnato in un percorso sul suono che sta andando avanti anche ora. Mi fatto crescere moltissimo e dato molta fiducia in me stesso come autore. Quando cominciamo a parlare di un disco di solito gli do i provini voce e chitarra poi ragioniamo insieme sugli arrangiamenti e sull’idea generale dell’album, per me è utilissimo affidarmi a una persona esterna di cui ho estrema fiducia e stima.

Luca Lovisetto l’ho conosciuto perché siamo compagni di etichetta su La Barberia Records. Io sono fan anche dei Baseball Gregg, che sono uno dei miei gruppi preferiti, e gli ho chiesto se gli andava di suonarmi un po’ di tastiere e chitarre nel disco. In “Arto” lui ha suonato moltissimo e fatto delle parti magnifiche. Una volta finite le registrazioni alla Falegnameria Studio ho pensato che il suo tocco avrebbe potuto dare qualcosa in più al disco anche in fase di mixaggio, e così è stato. Prima ci ha lavorato da solo, aggiungendo anche parti strumentali, e poi abbiamo chiuso il mixaggio insieme. “Stanza” invece l’ho realizzata nel salotto di Luca Lovisetto la sera in cui avevo diretto il video di “Burn Up” dei Baseball Gregg. Io, Luca Lovisetto e Sam Regan abbiamo fatto un provino del pezzo in alcune ore. Alla fine il demo mi è piaciuto talmente tanto che abbiamo tenuto quella versione in “Arto”, ho rifatto solo le voci.

Qual è la canzone (non tua) che non ti stanchi mai di ascoltare?
Ce ne sono molte. La mia canzone preferita di uno dei miei gruppi preferiti è “Nightswimming” dei R.E.M. Non mi stanca mai.

Di Federica Carlino

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