Intervista a Willie Peyote: “Il parlare troppo poi ti si ritorce contro”

Willie Peyote

Lunedì 9 ottobre abbiamo incontrato Willie Peyote subito dopo il suo showcase romano alla Discoteca Laziale. Dopo aver firmato le copie di “Sindrome di Tôret“, pubblicato l’etichetta 451 con distribuzione Artist First, l’artista di Torino si è fermato a scambiare due parole con noi davanti a una birra e una sigaretta.

Willie Peyote

Ho avuto la fortuna di passare un po’ di tempo a chiacchierare con Willie Peyote, artista torinese di grande talento. Il suo ultimo album, “Sindrome di Tôret“, è a mio parere uno dei migliori lavori usciti in Italia nell’ultimo anno, un connubio perfetto fra hip-hop e al tempo stesso quello che definirei “tutto ciò che non è hip-hop”. Perché sì Peyote ha la parlantina schietta del rapper e il tocco sofisticato del cantautore, ma li abbina ad un ricercato e vario gusto musicale, cosa da non sottovalutare per saziare anche le orecchie del fruitore poco incline a rime e beat.

Ci sono volte in cui un’intervista si trasforma più in un interrogatorio, perdendo naturalezza, ma non è stato di certo questo il caso. Mi sono trovata di fronte una persona molto socievole e alla mano, il tempo di salire al piano di sopra in ascensore e già avevo materiale per un paio di articoli.

“Queste sono le prime volte che firmo copie nei negozi. Mi piace quando mi chiedono qualcosa, al di là della foto… ad esempio l’altro giorno c’era un ragazzino di 13 anni che ha avuto il coraggio di domandarmi cosa ne pensassi degli Youtubers. L’ho apprezzato tantissimo!”.

Leggi qui sotto la nostra intervista!


Willie PeyoteAllora cominciamo… quando ho letto la prima volta il tuo nome d’arte ho pensato fossi straniero, poi ripetendolo ad alta voce ho intuito il gioco di parole…

Sì, lo è! Mi chiamo Guglielmo all’anagrafe, ogni tanto mi chiamavano Willie come soprannome, e il primo “Willie” che mi è venuto in mente era Willy il Coyote. Poi ci ho messo della droga dentro! [Ride]

E’ un gioco di parole anche il titolo dell’album…

Sì, la sindrome di Tourette è una sorta di incontinenza, non riuscire a trattenere alcune parole. Ho fatto il gioco di parole con le fontanelle con la testa di toro che abbiamo a Torino, che si chiamano “tôret” in dialetto. Volevo proprio ribadire che ci tengo ad essere di Torino!

Perché ti senti legato a Torino? In che modo ti ha influenzato la tua città?

Ci sono due aspetti che mi hanno sempre affascinato e influenzato di Torino.
Uno è l’etica del fare, ma senza tanti proclami, andando dritto al sodo. Poi un’altra cosa, che si lega a questo, è che Torino non fa niente per farsi notare, però se la scopri ha un sacco di cose interessanti da offrire, solo che non si mette in mostra. Questa è un’attitudine in cui mi riconosco moltissimo, fare silenziosamente le cose prendendole sul serio.

Il disco si apre con “Avanvera”, in cui appunto dici che la gente non sa di cosa sta parlando. Cosa ne pensi del fatto che oggi col web sia così facile per tutti dire la propria?

Il fatto che tutti abbiamo la possibilità di esprimere la nostra è positivo di per sé, nel momento in cui però lo si fa in maniera consapevole, avendo un’opinione. Spesso abbiamo fretta di esprimere opinioni su temi importanti senza conoscere bene le logiche di ciò di cui stiamo parlando. Ci vorrebbe più educazione in questo.

Ascoltando l’album noto diverse influenze musicali, c’è molta cura nel suono oltre che nelle liriche. Tu suoni qualcosa?

Ho suonato il basso da adolescente in un gruppo punk e fino a qualche anno fa suonavo la batteria in un gruppo rock. Tutta la mia famiglia suona, la musica ha sempre fatto parte della mia vita. Ci tenevo molto a riprendere la dimensione di musica suonata, della sala prove, del comporre i pezzi con i musicisti. Secondo me se ognuno mette qualcosa in più di sicuro viene tutto meglio, la musica è condivisione.

Quindi componi in sala prove con i musicisti?

In genere sì, ognuno mette le proprie idee e influenze, anche se poi è Frank che si concentra più di tutti sull’aspetto del suono.

Avevi in mente un messaggio in particolare da far arrivare con questo disco?

Non c’è un vero messaggio o un insegnamento, l’obiettivo del disco era quello di far mettere in moto i neuroni, di stimolare una discussione. Per fare ciò però bisogna arrivare a più gente possibile, anche per questo abbiamo cercato di cambiare direzione, per allargare il raggio d’azione, non per il successo ma perché più persone colpisci più è probabile trovare qualcuno che la pensi come te.

Sei uno che si appunta frasi che lascia nel cassetto o che apporta continuamente modifiche a ciò che scrive perché non è mai convinto?

Non lascio mai un appunto da parte per troppo tempo… questo però è il disco su cui ho lavorato più di tutti di cesello, non è stato di pancia, ci ho messo molta testa…

Quanto ci hai messo per scriverlo?

In realtà relativamente poco, meno di un anno. Forse solo il primo pezzo “Ottima scusa” ha poco più di un anno. Addirittura alcuni pezzi sono nati proprio in studio, ad esempio “Vilipendio”.

Mi incuriosisce sempre sapere qualcosa sulla copertina, che spesso viene trascurata, ma ritengo sia una parte importante di un progetto. Che significa? Te ne sei occupato tu?

No, merito dei grafici che sono riusciti a cogliere perfettamente l’idea del disco. La copertina è una ragazza con la lingua di fuori e la lingua è un tôret, una di quelle fontanelle di cui parlavo prima.  Se capovolgi la copertina vedi perfettamente che quella che sembra una lacrima in realtà è una fontanella che si “sputa” da sola nell’occhio, per rimandare a questo concetto che il parlare troppo poi ti si ritorce contro.

Proprio oggi ho letto un articolo su Spotify e sui servizi di streaming, spesso oggetto di discussione. Tu da che parte stai?

Secondo me questo fa parte di un’evoluzione che non possiamo fermare, opporsi allo streaming sarebbe come dire “peccato che non ci sono più le cabine telefoniche”, quando tutti abbiamo lo smartphone in tasca. Non è un processo così negativo, perché attraverso Spotify gruppi indipendenti hanno raggiunto platee incredibili! Ci sono persone che dopo aver sentito il disco su Spotify si appassionano al progetto e per supportarlo comprano comunque la copia fisica o vanno ai concerti…
Io non sono assolutamente contrario, bisogna solo capire come tenere tutto sotto controllo.

#FollowtheNoise…

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